Dopo un 2018 in cui la spinta per la crescita del Pil reale globale è arrivata soprattutto dagli Stati Uniti, nel 2019 l’economia americana perderà questo spunto, influenzando l’economia mondiale, che rallenterà passando dal 3,2% circa di quest’anno al 3%. In ogni caso, il contesto resta favorevole agli investimenti azionari più che a quelli obbligazionari, nonostante permangano alcuni rischi all’orizzonte. Daniel Morris, Strategist di BNP Paribas Asset Management, intervenuto a Milano per la presentazione dell’outlook per il 2019, ha passato in rassegna i fattori alla base delle previsioni per l’anno prossimo, partendo dall’indice della fiducia delle imprese. "Il dato è risultato in crescita negli Stati Uniti nel corso del 2018, mentre in Europa, così come nei Paesi emergenti, il trend è in discesa, pur se i valori restano in positivo", ha affermato Morris. Secondo il consensus del mercato, l’economia statunitense crescerà del 2,5% nel 2019 e dell’1,9% nel 2020, con un inflazione target al 2%. "Ci sono due rischi a questo proposito: il primo riguarda il fatto che la Fed alzi troppo i tassi di interesse per perseguire l’obiettivo di inflazione, influenzando negativamente la crescita economica, il secondo invece che sia proprio l’inflazione ad alzarsi eccessivamente, con la conseguenza che la Fed alzi i tassi più del previsto", ha spiegato Morris. Questi rischi vanno tenuti in considerazione soprattutto per l’investimento azionario, che potrebbe risentire di politiche aggressive della Banca Centrale americana. In ogni caso, l’aspettativa di base dell’asset manager francese è di tre probabili nuovi aumenti dei tassi americani nel corso del 2019. "Se i tassi si alzano, l’effetto sull’equity potrebbe essere comunque positivo. Nel 1994 - ha ricordato Morris - la Fed ha alzato i tassi in modo abbastanza aggressivo e i mercati azionari all’inizio hanno reagito negativamente, ma poi il risultato a fine anno è stato positivo. Il rialzo dei tassi, infatti, sarebbe in questo caso una conseguenza della forza dell’economia", e non di un’inflazione fuori controllo, ha osservato Morris. In Europa, invece, la crescita 2019 dovrebbe avvicinarsi molto al suo potenziale, pari circa all’1,5%. Il 2017 è stato un anno eccezionale per l’economia europea, che ha chiuso a +2,7%: perché invece già nel 2018 la crescita è scesa all’1,4%? "Il motivo è da ricercare nel livello delle esportazioni nette, andate in negativo nel 2018. Il 2017 era stato un anno eccezionale da questo punto di vista, con un grande contributo delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Nel 2018 questo trend si è invertito, e non ci aspettiamo che ci possano essere delle sorprese nel 2019", ha affermato Morris. In Europa, oltretutto, permangono due rischi, il primo legato all’Italia e il secondo alla Brexit. A questo proposito, Morris ha voluto sottolineare come lo scenario di una soft Brexit lascerebbe lo scenario attuale sostanzialmente immutato, mentre una hard Brexit "sarebbe molto negativa per la Gran Bretagna, ma anche per l’Europa", pertanto questo scenario non sembra essere preponderante. Tutti questi fattori fanno sì che l’economia europea non mostri segni di accelerazione, tanto che la Bce potrebbe essere portata a non alzare i tassi di interesse nel corso del 2019, per aspettare il 2020. Sul fronte dei Paesi emergenti, infine, Morris ha ricordato che il dollaro si è dimostrato molto forte nel 2018 rispetto alle valute emergenti, come effetto degli annunci di Trump. "Questo trend tuttavia sta perdendo forza, tanto che un eventuale deprezzamento del dollaro potrebbe essere un fattore a favore degli investimenti negli emergenti. Il rallentamento dell’economia cinese, oltretutto, non è stato il frutto delle politiche commerciali americane e delle minacce dell’amministrazione Trump, quanto piuttosto il risultato del deleveraging in corso del cosiddetto sistema bancario ombra. In termini di valutazioni azionarie, sono proprio gli emergenti, insieme al Giappone, a mostrare i maggiori segnali di valori sotto alle medie storiche, mentre sul fronte degli investimenti obbligazionari, i Treasury americani sembrano molto più convenienti rispetto ai bond sovrani core mondiali", ha concluso Morris.