DAZI: COME GLI INVESTITORI POSSONO AFFRONTARE LE INCERTEZZE Secondo Martin Harvey, Fixed Income Portfolio Manager di Wellington Management
19/05/2025 Redazione MondoAlternative

“A poco più di 100 giorni dall'inizio del secondo mandato del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, gli investitori globali potrebbero essere costretti a rivedere alcune assunzioni di lungo corso che hanno finora guidato le loro allocazioni di portafoglio”, afferma Martin Harvey, Fixed Income Portfolio Manager di Wellington Management, che spiega: “Riteniamo che tutti i mercati stiano affrontando, in sostanza, una ridefinizione delle relazioni del passato. Le recenti turbolenze legate ai dazi hanno fornito alcune informazioni importanti. In primo luogo, l’amministrazione statunitense è stata audace nei suoi annunci iniziali di politica economica, fattore che forse non avrebbe dovuto sorprenderci così tanto. In secondo luogo, i mercati azionari stanno reagendo alle potenziali conseguenze negative delle componenti più estreme di queste politiche”, sottolinea Harvey.

Le conversazioni con gli investitori azionari in Wellington suggeriscono che i mercati erano piuttosto convinti che dazi del 145% sulla Cina non fossero in alcun modo sostenibili. “Sembra che anche l’amministrazione statunitense sia giunta alla stessa conclusione. In particolare, dalle conversazioni avute con analisti del settore retail in Wellington, sembrerebbe l’amministrazione statunitense abbia capito che nel giro di poche settimane gli scaffali sarebbero stati vuoti. Attualmente, i dazi medi sulle importazioni negli Stati Uniti restano elevati, attestandosi tra il 10% e il 15%. Questo avrà un impatto sulla crescita e sull’inflazione, con effetti che, in questa fase, sembrano essere più pronunciati sull’inflazione che sulla crescita. Tuttavia, permane un elevato livello di incertezza su come questi fattori si trasmetteranno all’economia e i mercati dovranno fare i conti con questa realtà”, evidenzia Harvey, secondo il quale poi: “Il dollaro statunitense si è indebolito in risposta agli ultimi avvenimenti, sollevando interrogativi tra gli investitori su come gestire la loro esposizione alla valuta americana in futuro. Negli ultimi 5/10 anni, l’idea dell’eccezionalismo statunitense è stata un tema dominante nel ciclo economico globale, con l’economia Usa che ha guidato la crescita e il mercato azionario statunitense che ha sovraperformato, attirando ingenti flussi di capitale verso le azioni statunitensi. Questo ha creato una sorta di ciclo virtuoso, in cui l’aumento delle valutazioni azionarie sosteneva un dollaro più forte, incoraggiando gli investitori globali ad accumulare consistenti posizioni in dollari. Ad esempio, le partecipazioni statunitensi da parte di investitori azionari europei sono passate dal 15% al 30% negli ultimi 10/15 anni. Tuttavia, una delle colonne portanti della politica dell’attuale amministrazione americana è la riduzione del disavanzo commerciale e del deficit delle partite correnti. L’accumulo di asset statunitensi nei portafogli degli investitori globali rappresenta l’altro lato della medaglia, ridurre il saldo commerciale implica inevitabilmente minori investimenti in asset statunitensi da parte degli investitori stranieri”.

L’esperto di Wellington Management segnala che, “negli ultimi mesi, i mercati hanno intrapreso un percorso di adeguamento a questa nuova realtà. Inizialmente, con l’elezione di Trump, si prevedeva che l’eccezionalismo statunitense sarebbe continuato, insieme a un rafforzamento del dollaro e alla prosecuzione dei trend osservati negli anni precedenti. Tuttavia, è ormai chiaro che l’orientamento dell’amministrazione nel ridurre gli squilibri esterni potrebbe spingere gli investitori a rimpatriare gli asset in dollari o quantomeno a coprirli. Nel corso dell’ultimo mese, abbiamo assistito a un cambiamento delle aspettative e delle relazioni di mercato, con lo status di bene rifugio del dollaro messo in discussione nell’aprile scorso, quando il mercato azionario ha subito un forte calo e, parallelamente, il dollaro ha iniziato a deprezzarsi. Altri asset, come lo yen giapponese e l’euro, hanno assunto quel ruolo di bene rifugio tradizionalmente associato al dollaro statunitense. Guardando al contesto storico più ampio, quando i Paesi hanno registrato simultaneamente ampi deficit delle partite correnti e deficit fiscali, ciò è stato generalmente seguito da una svalutazione della valuta, un meccanismo essenziale per correggere tali squilibri. In quest’ottica, considerando che gli investitori globali restano ancora pesantemente sovraesposti al dollaro statunitense, anche una modesta riallocazione verso altre valute appare, al momento, una scelta sensata”.

Secondo Harvey, “guardando all’inflazione, le forze della deglobalizzazione suggeriscono che l’inflazione rimarrà più elevata rispetto agli ultimi 25 anni, il che rappresenta una sfida per gli investitori obbligazionari. Questo scenario è stato particolarmente evidente nel 2022, quando il forte e inatteso aumento dell’inflazione ha portato i rendimenti a salire significativamente da livelli precedentemente molto bassi, generando un’esperienza di rendimento totale estremamente negativa per gli investitori nel reddito fisso. Fortunatamente, con i rendimenti ora molto più elevati, intorno al 4/5% per la maggior parte delle obbligazioni sovrane e ancora superiori per le obbligazioni societarie e gli asset più rischiosi, la probabilità di assistere a una ripetizione di quella stessa esperienza negativa è oggi molto più bassa. Pertanto, nonostante le aspettative che l’inflazione rimanga elevata, le prospettive di rendimento totale per il reddito fisso sono oggi nettamente migliorate rispetto al 2021 e al 2022”.

In conclusione, Harvey afferma che, “dal punto di vista degli investitori azionari, abbiamo assistito nel passato ad un ciclo virtuoso di sovraperformance della crescita statunitense che ha portato a una sovraperformance del dollaro, facendo sì che le valutazioni delle azioni statunitensi diventassero significativamente più elevate rispetto a quelle di altri mercati azionari nel mondo. Pertanto, sarebbe logico attendersi una certa riallocazione degli asset verso mercati azionari con valutazioni relativamente più basse. L’Europa, ad esempio, rappresenta un mercato interessante. Uno degli esiti concreti delle politiche dell’amministrazione statunitense, se vogliamo riconoscerle questo merito, è stato l’impulso alla spesa fiscale in Germania. La Germania è storicamente l’economia che, anche per vincoli costituzionali, in particolare per la regola del freno al debito, non ha mai potuto adottare una politica fiscale espansiva. Ora, però, questo sembra essere cambiato e abbiamo motivo di credere che il potenziale di crescita dell’Europa nei prossimi anni possa essere superiore a quello degli anni passati”.

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