Tutta la ricerca macroeconomica di consenso continua a essere focalizzata sui dazi e sull’impatto che potranno avere sull’economia, con una noiosa narrazione che analizza in dettaglio, settore per settore e Paese per Paese, di quanto si contrarrà l’economia e di quanto salirà l’inflazione, ma ogni settimana queste analisi diventano carta straccia, dato che le cose continuano a modificarsi in base agli umori dell’amministrazione Usa. È il punto di partenza dell'analisi di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy, che ritiene che tutto questo sia finalizzato a distogliere l’attenzione dal fatto che i mercati finanziari americani siano ormai totalmente nazionalizzati.
"Il Ministero del Tesoro amministra ormai di fatto gli indici azionari e anche il livello dei tassi d’interesse sui Treasury. Le violente inversioni di tendenza a cui sono stati sottoposti gli indici dei mercati azionari americani negli ultimi mesi sono state il frutto di operazioni di intervento da parte del Ministero del Tesoro, con la partecipazione di alcuni hedge fund particolarmente vicini al Governo Usa. Intermediari che dispongono di linee di credito in grado di risollevare il mercato nei momenti più critici, ma anche di informazioni privilegiate sulle dichiarazioni e sulle mosse della Casa Bianca, che è probabilmente all’epicentro di un colossale giro di insider trading. In realtà l’andazzo è già noto da tempo, visto che esponenti del Congresso Usa e della Fed sono stati più volte censurati dalla stampa per l’intensa attività di trading svolta da alcune figure istituzionali. Nel frattempo gli interventi dell’Exchange Stabilisation Fund, il fondo d’intervento voluto dal Ministro del Tesoro Usa Bessent per mettere un cap ai tassi a dieci anni, riesce a gestire abbastanza bene la forte pressione di vendita sui Treasury americani da parte di investitori internazionali, anche se la Fed è stata costretta ad intervenire con un QE di 43 miliardi di dollari in questi giorni per acquistare titoli di stato sul mercato. Le istituzioni bancarie saranno facilitate nell’acquisto di titoli di stato Usa senza limiti, grazie a un provvedimento in via di approvazione, che rimuove dai ratios patrimoniali delle banche il rischio sulle posizioni in titoli di Stato americani. Tutto questo a conferma di quanto avevo già preannunciato da alcuni mesi sul rischio che il mercato finanziario Usa sarebbe stato nazionalizzato per cercare di evitare una crisi innescata da politiche fiscali insostenibili", osserva Novelli.
L'esperto di Lemanik ricorda poi che l’approvazione della legge di bilancio in discussione al Senato (e già approvata alla Camera), definisce una traiettoria di deficit/Pil a -8% per i prossimi dieci anni, senza prevedere nessuna recessione, crescita costante al 2,5%, inflazione al 2% e tassi d’interesse sul debito fermi al 3,5%. Secondo Novelli, "questa “sofisticata” previsione macroeconomica assomiglia ai piani economici dell’ex Unione Sovietica, anche se invero, il Politburo si spingeva al massimo a definire piani quinquennali. Gli Stati Uniti possono facilmente manipolare il mercato azionario, dato che ormai ha una miserrima presenza di investitori istituzionali, possono introdurre il controllo della curva sui tassi, grazie anche all’aiuto delle banche e della Fed, ma non possono controllare il livello del dollaro, che rischia di diventare il potenziale trigger di una crisi Usa".
La crisi dei titoli di Stato del Giappone
Nella view di Novelli, inoltre, la dimensione del mercato valutario è fuori da ogni possibile controllo e richiede interventi concertati delle Banche Centrali per avere qualche effetto. Prosegue infatti la sua analisi: "Recentemente la BOJ è intervenuta per indebolire lo Yen e frenare una possibile rottura dei colossali carry trade in essere, dato che l’aumento incontrollato dei tassi giapponesi, innescato dal fallimento di numerose aste dei titoli di stato, si era già trasmesso al cross dollaro/yen. Non sappiamo per quanto tempo tale situazione possa reggere ma per ora è stato messo un cerotto alla diga dei carry trade che sostengono gli asset finanziari americani detenuti dal Giappone. La crisi dei titoli di Stato del Giappone è un ulteriore problema che si aggiunge a un sistema finanziario globale che fa acqua da tutte le parti e che richiede un bail out ormai giornaliero. Il problema del Giappone rischia ora di essere un altro elemento sistemico negativo per gli Stati Uniti. La strategia dei policy maker giapponesi era chiara: avviare una politica reflazionistica per uscire dalla trappola della deflazione, svalutare a termine il colossale debito pubblico con l’inflazione e sostenere la crescita salariale per rilanciare i consumi interni. Tale strategia si basava su svalutazione dello yen per innescare inflazione importata, mantenimento dei tassi a livelli bassi (tassi reali negativi) e stimolare i consumi interni attraverso una rivalutazione dei salari. In effetti l’inflazione è partita (ora è al 3,6%), lo yen si è svalutato e ha favorito i carry trade verso dollaro, i tassi sono sempre rimasti piuttosto bassi (0,5%), ma le grandi istituzioni giapponesi hanno iniziato a disertare le aste dei titoli di stato. A questo punto la parte lunga della curva ha iniziato a impennarsi, mettendo in seria crisi la strategia di mantenimento del costo del debito pubblico (240% del Pil) a livelli accettabili e innescando un rafforzamento indesiderato di yen, supportato da attese di rialzi dei tassi in Giappone. Nel corso degli ultimi tre mesi la situazione ha iniziato a deteriorarsi e la politica reflattiva si è rivelata un boomerang".
Novelli osserva che, a questo punto, l’economia ha iniziato a rallentare decisamente, i tassi non potevano quindi essere più aumentati ma l’inflazione ha continuato comunque a salire, mettendo in crisi la strategia della BOJ mirata a contenere il costo del colossale debito pubblico. "La crisi delle aste dei titoli pubblici si è quindi intensificata e l’aumento dei tassi ha iniziato a erodere il differenziale di rendimento tra titoli del Tesoro Usa e JGB, differenziale che è sempre stato la struttura portante dei carry trades. BOJ ha dovuto quindi intervenire a stampare moneta per acquistare titoli di stato e indebolire lo Yen, proprio quando l’inflazione importata non sembra però volersi più fermare", ha analizzato il gestore del fondo Lemanik Global Strategy, proseguendo: "A questo punto, se non vuoi che i carry trade saltino e si inneschi una crisi finanziaria negli Stati Uniti, devi tornare a fare QE, ma se torni a fare QE e a svalutare lo yen, rischi che la traiettoria dell’inflazione importata ponga ulteriori problemi ai titoli di Stato, costringendo BOJ ad intensificare il QE e a svalutare ulteriormente lo yen, avviando una spirale inflazionistica che può essere fermata solo con una recessione. È quindi chiaro che il puntellamento del debito Usa passa da una recessione giapponese che possa spegnere l’inflazione e mantenere uno yen debole per sostenere i carry trade. Ma il problema è che nel frattempo gli Stati Uniti sembrano propensi a implementare politiche fiscali e commerciali reflazionistiche, hanno bisogno di tassi d’interesse bassi per finanziare il debito (YCC) e perseguono politiche che procurano fuga di capitali dagli Usa e dollaro debole. Appare evidente che la strategia di Giappone e Stati Uniti è in una fase divergente e questo è un ulteriore problema alla stabilità finanziaria internazionale. Il cross dollaro/yen è dunque l’incrocio pericoloso dei capitali che sostengono i titoli del debito Usa, ma è diventato anche il principale driver dell’inflazione giapponese, che crea problemi politici interni e scontri sotterranei tra Boj e il governo. Mentre il Giappone ha bisogno di rafforzare lo Yen, il governo americano chiede di indebolirlo ma nello stesso tempo mira a svalutare il dollaro".
Il disordine globale di cui nessuno parla
Per Novelli il contesto di disordine globale, di cui nessuno osa parlare, appare sempre più pronunciato: "1) Gli Stati Uniti non possono interrompere l’intervento fiscale perché il sistema finanziario non reggerebbe una recessione ma non vogliono che l’espansione del debito sia finanziata con un aumento del risparmio interno. Infatti un aumento del risparmio interno produrrebbe un calo della domanda e una recessione. Quindi, Giappone, banche e Fed devono finanziare l’espansione del debito pubblico, ma i tassi non devono salire per non procurare una recessione. La concomitanza di debito fuori controllo e tassi sotto controllo sta procurando uscita di capitali esteri dal dollaro; 2) Il Giappone è costretto a frenare l’inflazione importata ma non vuole più alzare i tassi perché l’economia si è fermata. L’unica soluzione per fermare l’inflazione importata è rivalutare lo yen ma questo mette a rischio i carry trades. Le aste dei titoli di stato vanno in crisi e la Boj deve intervenire a fare QE, ma il QE indebolisce lo yen che alimenta l’inflazione importata. C’è un elevato rischio di tenuta dei carry trade che finanziano un debito Usa fuori controllo; 3) Le politiche commerciali produrranno inflazione e un rallentamento economico globale. L’incertezza frena gli investimenti e l’economia internazionale è già in stagnazione ora. La stagnazione economica attuale è di fatto già una recessione, ma la manipolazione dei dati macro continuerà a negare ufficialmente lo scenario recessivo. Il ciclo economico è di fatto soppresso; 4) Gli investitori internazionali stanno comunque uscendo dal dollaro, dato che negli ultimi anni gli asset americani avevano attirato un record di investimenti esteri. La vendita di asset americani e l’uscita dei capitali dal dollaro riduce la liquidità disponibile per il sistema finanziario Usa, che deve essere quindi fornita ora dalla Fed".
Lo scontro Trump/Powell è solo un gioco delle parti
Per non riaprire un QE, che sarebbe un ulteriore fattore di indebolimento del dollaro, l'opinione del gestore del fondo Lemanik Global Strategy è che la Fed è costretta ad iniettare riserve nel sistema attraverso il canale bancario, il quale diventa il principale sottoscrittore di Treasury: "È di fatto un QE indiretto che porterà comunque a dollaro debole e inflazione, ma per ora solo gli addetti ai lavori l’hanno capito. Lo scontro tra Fed e Governo Usa è solo una farsa per sostenere un gioco delle parti, Powell è consapevole della situazione in cui versa l’economia e sa che l’intervento fiscale è l’unico strumento per evitare una caduta in recessione. Il braccio di ferro sui tassi è solo apparenza, in realtà la Fed sta fornendo un colossale sostegno monetario attraverso la gestione delle riserve nel sistema, che continuano a rimanere a 3,6 trilioni di dollari contro il livello normale di 1,8 trilioni. Nonostante questo l’economia Usa è in stagnazione e galleggia solo grazie all’intervento pubblico. L’eccezionalismo americano è piuttosto costoso e basato su debito insostenibile: nel 2024 ha generato 2,8 trilioni di nuovo debito pubblico e 3,6 trilioni di nuovo debito privato (loan, private debt, corporate bond, leverage loan, credito al consumo, ecc), 6,4 trilioni, per ottenere 650 mld di Pil. Ma quanto dura?".
"È evidente che un sistema che si regge su questo modello richiede una nazionalizzazione dei tassi e dei mercati finanziari, una deregulation mirata a non far contabilizzare le perdite occulte nei bilanci di chi finanzia tale sistema (banche e shadow Banking) e l’esigenza di congelare in qualche modo gli asset che lo sostengono. Per questo motivo si parla di century bond e di potenziale controllo dei capitali. Intanto, nel silenzio generale, la legge di bilancio Usa appena approvata alla Camera contiene un provvedimento di legge che consente l’applicazione di un’imposta su cedole e capital gain fino al 30% per tutti gli investitori esteri che detengono asset americani e che appartengono a Paesi che applicano tassazioni discriminatorie sulle grandi multinazionali tecnologiche (digital gax). A rendere più inquietante il contesto si deve sapere che tra i poteri speciali del Presidente degli Stati Uniti c’è una legge che consente, in caso di “emergenza nazionale”, di bloccare qualsiasi uscita di capitali dal suolo americano, ma se non sai, tutto sembra ok", conclude Novelli.