“Il nostro peso in Occidente sta diminuendo, non aumentando”. Questa semplice affermazione, secondo Andrew Keiller, partner di Baillie Gifford, non è né un giudizio né una lamentela, ma una constatazione della realtà globale. “I motori della crescita si stanno spostando: tengono il minimo ad Astana, accelerano a Seul e sfrecciano sulle autostrade di Shenzhen. I Paesi dei mercati emergenti non si limitano più a recuperare terreno: ora aprono la strada e plasmano il futuro. E per l’investitore di lungo periodo rappresentano una delle opportunità più convincenti del nostro tempo”, spiega Keiller, che prosegue: “Nell’ultimo decennio, numerosi investitori hanno guardato ai mercati emergenti con un misto di cautela e nostalgia, perseguitati dal ricordo di crisi valutarie e turbolenze politiche. Ma lo scenario odierno è ben diverso: riforme strutturali, crescita dei consumi interni e innovazione tecnologica stanno dando vita a economie e imprese sempre più adattabili e redditizie. Questa trasformazione è forse esemplificata da aziende come Kaspi.kz, una super app utilizzata dalla maggior parte della popolazione adulta kazaka per operazioni bancarie, pagamenti, acquisti e trasporti. Ha trasformato radicalmente l’economia del Paese. O come Luckin Coffee in Cina, che oggi conta molte più caffetterie di Starbucks e continua ad espandersi rapidamente in un mercato ancora poco penetrato. Non si tratta di scommesse speculative, ma di realtà che stanno crescendo nei rispettivi mercati interni, con una redditività in miglioramento (e di conseguenza una maggiore resilienza operativa)”.
Per Keiller, due ostacoli principali iniziano a perdere slancio: la forza del dollaro statunitense e il sentiment negativo nei confronti della Cina. “Una quota crescente degli scambi tra mercati emergenti avviene ormai in valute diverse dal dollaro. Un dollaro debole non solo favorisce le condizioni finanziarie nei Paesi emergenti, ma contribuisce anche a migliorare il sentiment in un momento in cui ci sono numerose ragioni per mettere in discussione il ruolo tradizionale dei Paesi finora considerati porti sicuri. Con oltre 22.000 miliardi di dollari in asset statunitensi detenuti da investitori esteri (in gran parte non coperti dal rischio di cambio) anche un lieve ribilanciamento potrebbe innescare una nuova ondata di domanda per i mercati emergenti”, sottolinea l’esperto.
“Nel frattempo, la traiettoria della Cina non è determinata esclusivamente dalla situazione geopolitica o dalle politiche commerciali, come affermano molti catastrofisti”, afferma Keiller. “Anzi, quella direzione potrebbe essere del tutto sbagliata. La vera questione è l’enorme economia domestica cinese, sempre più autosufficiente. Le vendite al dettaglio in Cina superano di oltre dieci volte il valore delle esportazioni verso gli Stati Uniti: un dato che dovrebbe spostare l’attenzione dai dazi al consumatore interno. Aziende come Meituan e DeepSeek sono la prova della resilienza tecnologica del Paese. Vale la pena sottolineare che oltre il 70% dei Paesi commercia oggi più con la Cina che con gli Stati Uniti. Inoltre, la spesa dei consumatori cinesi mostra segnali tangibili di ripresa”, aggiunge Keiller.
L’esperto segnala inoltre come spesso si parli dei mercati emergenti “come se fossero un blocco monolitico: ma non lo sono affatto. Non sono né la geografia né il livello di reddito a unire queste regioni, ma la qualità delle opportunità e l’ampiezza delle ambizioni, che stanno crescendo rapidamente e meritano un’attenzione particolare. Esistono sempre più aziende di livello mondiale nei mercati emergenti, in settori come semiconduttori, gaming, fintech ed energia verde, solo per fare qualche esempio. Pensiamo a CATL per le batterie per veicoli elettrici, SK Hynix High Bandwith Memory (chip di memoria per l’AI e l’high-performance computing), oppure a Tencent e SEA nel gaming. Le aziende migliori conquistano un posto in un portafoglio grazie a esecuzione eccellente, solidi vantaggi competitivi, elevati ritorni sul capitale e, spesso, assenza di concorrenza diretta. In molti casi, rappresentano l’unica porta d’accesso a temi essenziali come l’elettrificazione, la trasformazione digitale e la resilienza delle risorse”, precisa Keiller.
In conclusione, secondo Keiller, “forse, il rischio maggiore per gli investitori oggi è quello di restare sottopesati rispetto a questa trasformazione. Le valutazioni restano contenute. I mercati interni diventano più profondi, e i rischi legati a valute, debito e governance, pur presenti, sono gestiti molto meglio rispetto ai cicli precedenti. Soprattutto, molte di queste aziende non dipendono più da una ripresa del commercio globale o dei prezzi delle materie prime: prosperano invece all'interno di ecosistemi locali, con clienti locali e capitali locali. Questo non significa che il percorso sarà lineare. La politica è complicata (ma non è così anche nei mercati sviluppati?). I mercati sono spesso volatili. Ma la direzione è chiara: i mercati emergenti non sono più alla periferia del progresso, ne stanno diventando i veri protagonisti. Ignorarli non è prudenza: è, con tutta probabilità, negligenza”, sottolinea Keiller.