“A differenza delle coalizioni tedesche composte da tre partiti o dei Governi tecnocratici italiani, la cultura politica francese privilegia un’opposizione diretta, anche a costo della paralisi istituzionale”, esordisce Patrice Gautry, Global Head of Economic and Thematic Research di Union Bancaire Privée (UBP), che prosegue: “Questa logica politica sta tenendo in ostaggio l’economia, indebolendo la posizione della Francia e contribuendo al suo lento declino. Di conseguenza, le agenzie troveranno nuovi motivi per continuare a declassare il rating del credito francese. Nel 2025, la crescita francese resterà positiva ma debole: secondo le previsioni del consenso, si collocherà tra lo 0,5% e lo 0,8% nel 2025 e nel 2026, mentre il nostro scenario indica un aumento limitato dello 0,6% in entrambi gli anni. Anche se non si prevede una recessione, l’attività economica potrebbe crescere di appena lo 0,1% nei prossimi trimestri, con una crescita media che nel 2025 supererebbe di poco lo 0,5%. Ciò eserciterà ulteriori pressioni sui conti pubblici”.
Per Gautry, “la crescita è attesa ben al di sotto del suo potenziale (stimato intorno all’1,2%) nel 2025 e nel 2026. Tuttavia, questo potenziale potrebbe essere rivisto al ribasso, a meno dell’1% nel corso del prossimo decennio, a seconda che le decisioni politiche ritardino o meno le riforme strutturali. Come già accaduto in diversi principali Paesi sviluppati, il costo del servizio del debito in Francia è destinato ad aumentare in modo significativo tra il 2024 e il 2026, raggiungendo circa il 3,0% del Pil secondo le previsioni della Commissione Europea. Il mercato ha progressivamente prezzato i rischi specifici legati alla Francia e, attualmente, il premio per il rischio idiosincratico si attesta a +41 punti base, leggermente al di sopra dei livelli registrati dopo il voto di sfiducia a Michel Barnier. Ciò suggerisce che il mercato stia già scontando l’instabilità politica francese e l’assenza di un importante consolidamento fiscale”.
Gautry segnala come le discussioni sul bilancio siano ancora in corso e potrebbero riservare sorprese spiacevoli. “Tuttavia, i mercati sembrano aver già tenuto conto dell’ipotesi di un’approvazione della legge di bilancio per il 2026, con lo spread OAT/Bund al di sotto degli 80 punti base. Ciononostante, shock maggiori (come elezioni presidenziali anticipate o lo scioglimento del Parlamento) potrebbero spingere lo spread oltre gli 80 punti base, fino a un intervallo compreso tra 90 e 100 punti base. Negli ultimi 18 mesi, gli OAT si sono notevolmente deprezzati, riflettendo un aumento del premio per il rischio legato alla Francia. Tuttavia, lo spread è stato influenzato da due fattori. In primo luogo, i cambiamenti nel regime fiscale tedesco hanno comportato un deprezzamento idiosincratico dei Bund. In secondo luogo, gli spread di altri titoli di Stato europei (EGB), in particolare quelli di Spagna e Italia, si sono compressi grazie al miglioramento dei fondamentali economici, esercitando un effetto al ribasso sullo spread OAT/Bund”, sottolinea l’esperto, che continua: “Gli OAT stanno già scambiando a livelli che implicano un rating creditizio circa cinque gradini al di sotto del posizionamento attuale della Francia, il che suggerirebbe una reazione contenuta in caso di downgrade. Tuttavia, il downgrade della Francia ad A+ da parte di due delle tre principali agenzie di rating potrebbe avere implicazioni per gli investitori istituzionali, inclusi fondi pensione, Ucits, compagnie assicurative e banche vincolate da regolamenti interni. Molti di questi investitori si basano sui rating medi per orientare le proprie allocazioni, il che potrebbe spingerli a ridurre le loro partecipazioni in OAT. Inoltre, il fatto che il 50% del debito pubblico francese sia detenuto da investitori non residenti aumenta il rischio di un eventuale sell off in caso di un nuovo downgrade, come è avvenuto con gli investitori giapponesi all’inizio del 2025. Questi investitori tendono a essere più sensibili ai rischi politici e alle preoccupazioni fiscali. Fortunatamente, tali deflussi di portafoglio si invertono generalmente una volta che le tensioni si attenuano, evidenziando la relativa stabilità a medio termine dei detentori esteri di debito”.
Secondo Gautry, “l’allargamento dello spread OAT/Bund non riflette solo l’incertezza politica immediata, ma riporta anche alla luce questioni più profonde riguardanti la traiettoria fiscale di lungo periodo della Francia. Osservata attraverso la lente “r–g”, cioè la differenza tra il costo del debito pubblico (r) e la crescita nominale del PIL (g), la situazione fiscale della Francia appare sempre più preoccupante. Il rapporto debito/PIL del Paese, attestato intorno al 113% nel 2024, tenderà ad aumentare se non verranno intraprese azioni significative sul disavanzo primario. Dopo il Covid-19, la Francia ha beneficiato di un r–g negativo: i costi di indebitamento erano inferiori alla crescita nominale, permettendo al debito di stabilizzarsi anche con elevati disavanzi primari. Tuttavia, questo equilibrio favorevole è destinato a invertirsi. Fortunatamente, il costo medio del debito francese oggi è basso (circa il 2%) e, grazie a una scadenza media ponderata di 8,5 anni, attenua il passaggio da rendimenti di mercato a costi di finanziamento più elevati. Tuttavia, poiché i tassi di mercato restano superiori al costo medio del debito francese, l’onere degli interessi aumenterà gradualmente, portando la componente “r” al di sopra della “g”. In questo scenario, la capacità del governo di generare surplus primario diventa cruciale per stabilizzare il rapporto debito/Pil”, afferma l’esperto di UBP.
Tra i Paesi dell'eurozona, le sfide fiscali dell'Italia presentano analogie con quelle della Francia. “Il rapporto debito/Pil dell'Italia è uno dei più elevati dell'area euro (135% del Pil nel 2024) e la scadenza media del suo debito supera i sette anni, il che ha anche limitato l'aumento del costo del debito pubblico italiano (3% nel 2024). Tuttavia, l'Italia era già tornata a un avanzo primario nel 2024, grazie alla disciplina fiscale introdotta sotto la guida di Giorgia Meloni, che contribuisce a contrastare l'aritmetica sfavorevole “r-g” e riduce le preoccupazioni relative alla sostenibilità del debito. La Spagna offre prospettive più ottimistiche. Con uno stock di debito iniziale più basso (101% del Pil), una robusta crescita nominale recente e un piano di consolidamento fiscale molto credibile, la Spagna è riuscita a tenere a bada le preoccupazioni sulla sostenibilità del debito, che hanno portato a una compressione degli spread e al momentum positivo per quanto riguarda il rating (da A ad A+ da parte di S&P)”, commenta Gautry, che poi aggiunge: “Per affrontare le sfide fiscali di lungo periodo, la Francia deve intervenire su entrambi i fronti dell’equazione r–g. Sul lato “r” (il costo del debito pubblico), mantenere la credibilità fiscale attraverso il controllo pluriennale della spesa è fondamentale per prevenire un premio per il rischio duraturo. Sul fronte della crescita nominale del Pil (“g”,) sono necessarie riforme che aumentino la produttività e la crescita potenziale, rafforzando il denominatore del rapporto debito/Pil. Detto ciò, la frammentazione politica rende entrambe le operazioni più difficili da realizzare, come dimostra la recente concessione sul bilancio necessaria per mantenere in carica il Governo Lecornu. Senza un consenso su una strategia fiscale di lungo termine, la Francia rischia un aumento del peso del debito e un ampliamento dello spread OAT/Bund, riflettendo crescenti preoccupazioni sulla sostenibilità del debito”.
In conclusione, secondo Gautry, “l’attuale dibattito sul bilancio rischia di ritardare alcuni sforzi di consolidamento fino a dopo le elezioni presidenziali del 2027. Il rischio, quindi, è che dopo tale data venga imposta una vera austerità fiscale, poiché non ci saranno alternative a causa del divario di performance rispetto agli altri Paesi dell’eurozona. Per rimanere entro gli obiettivi di riduzione del deficit e del debito presentati alla Commissione Europea nel 2025, ciò comporterebbe tagli di circa 40 miliardi di euro all’anno (1,3% del Pil)”.